La responsabilità dell’amministrazione nel diritto comunitario

MARIO P. CHITI

Sommario: 1. La responsabilità extracontrattuale nel diritto comunitario come portato necessario della natura della Comunità europea come “comunità di diritto”. 2.  Miti e realtà della tutela dei diritti nell’ordinamento comunitario.  3.  La responsabilità extracontrattuale della Comunità e taluni suoi caratteri originali.  4.  La responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Base giuridica ed altre questioni generali. 5. Segue: il carattere comunitario della responsabilità degli Stati membri e le peculiari conseguenze.  6. Cenni sull’incidenza nella problematica nazionale.    

1. La responsabilità extracontrattuale nel diritto comunitario come portato necessario della natura della Comunità europea come “comunità di diritto”

1.1.  La Comunità europea (CE) è un’organizzazione sovranazionale tanto caratterizzata dal ruolo del diritto da essere considerata una “comunità di diritto”. Lo stesso vale ovviamente per l’Unione europea (UE); sino a quando rimarrà la distinzione tra UE e CE, ovvero sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che prevede che “l’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea”.[1] Questo implica principalmente che “né i suoi Stati membri né le sue istituzioni sono sottratti al controllo di conformità dei loro atti alla carta costituzionale fondamentale costituita dal Trattato CE; e che quest’ultimo ha istituito un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti inteso ad affidare alla Corte il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni” (giurisprudenza consolidata; da ultimo, riassuntivamente, Corte di giustizia, sentenza 3.9.2008, cause riunite C-402/05 e C-415/05, Kadi, para. 281 e segg.). Inoltre, i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza.Il rispetto del diritto rappresenta dunque la condizione di legittimità degli atti comunitari, e nel sistema comunitario non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto di questi ultimi (Corte di giustizia, 12.6.2003, causa C-112/00).La qualificazione della CE come “comunità di diritto” è risalente ed affermata sia nelle istituzioni politiche (così, nel Parlamento europeo, da Walter Hallstein cui si deve la felice espressione), sia dalla scienza giuridica (specialmente da Jean-Victor Louis nel suo libro seminale sui caratteri dell’ordinamento comunitario), che nella giurisprudenza della Corte (specialmente a partire dalla sentenza 23.4.1986, causa 294/83, Les Verts/Parlamento europeo). Ciò che ai presenti fini maggiormente interessa è la sottolineatura dell’autonomia del sistema giuridico comunitario, del quale la Corte di giustizia assicura il rispetto in forza della competenza esclusiva di cui essa è investita a norma dell’art. 220 TCE; competenza che la Corte ha considerato come facente parte dei fondamenti stessi della Comunità (parere 14.12.1991, n. 1/91). In coerenza con questo assunto generale, il tema della tutela dei diritti fondamentali e delle garanzie è stato svolto sin dal 1969 (Stauder, sentenza 12.11.1969, causa C-29/69), con un’originale giurisprudenza della Corte di giustizia (tramite la categoria dei “principi generali di diritto comunitario”, a partire dal caso Nold, sentenza 14.5.1974, causa 4/73) e con un uso sapiente della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), promossa dal Consiglio d’Europa (a partire dalla sentenza 13.12.1979, Hauer, causa 44/79). La CEDU è stata così progressivamente “comunitarizzata”, senza che la CE divenisse parte della stessa (parere n. 2/94). Il principio divenuto definitivo è dunque che “i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma” (sentenza 26.6.2007, C-305/05).La Carta dei diritti fondamentali dell’UE - “proclamata” a Nizza nel dicembre 2000, approvata dal Parlamento europeo con grandissima maggioranza nel novembre 2007, ed indi “riproclamata” dai presidenti delle tre istituzioni – pareva la logica conclusione del percorso per la piena costituzionalizzazione comunitaria dei diritti fondamentali. Ma è ben noto che al valore oggettivamente costituzionale della Carta non ha corrisposto finora un suo formale riconoscimento giuridico. Ciò avverrà solamente con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ove si chiarisce che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (punto 8 del preambolo, che sostituisce l’art. 6 TUE), pur rimanendo un testo giuridico a sé stante.Comunque, la Carta ha esercitato un ruolo di rilievo nelle argomentazioni dei giudici comunitari – che ne hanno parlato come “fonte di ispirazione” - e degli avvocati generali, che hanno arricchito le loro “conclusioni” con vari riferimenti ad essa; la stessa Corte costituzionale ne ha riconosciuto il rilievo interpretativo (sentenza n. 349/2007)[3].

1.2.  Tra le molte articolazioni della nozione di “comunità di diritto” vi è quella della responsabilità extracontrattuale quale istituto giuridico necessario del diritto comunitario, vuoi per il versante propriamente comunitario (vale a dire per i comportamenti delle istituzioni e degli organismi comunitari), vuoi per le competenze a rilevanza comunitaria esercitate dagli Stati membri[4].Come molti altri caratteri generali del diritto comunitario, il punto era già implicitamente previsto nella fondamentale sentenza del 1963 Van Gend & Loos[5], che, nel riconoscere i cittadini degli Stati membri come soggetti dell’ordinamento comunitario, affermò che questo comportava anche dei diritti che divenivano parte del loro patrimonio legale (punto 30 della sentenza). Non fu pertanto sorprendente – almeno per i più attenti osservatori – che nella sentenza Francovich la Corte affermasse che l’effettività del diritto comunitario e della tutela dei singoli sarebbe stata invalidata se i singoli non avessero legittimazione ad agire anche nei confronti degli Stati per violazioni di diritto comunitario.Il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale nel sistema comunitario – inteso come sistema integrato con quello degli Stati membri – deriva anche da una serie di concomitanti principi, tra cui in particolare quelli di primato del diritto comunitario e di effettività della tutela.Tali principi saranno meglio analizzati più avanti, relativamente alla discussione sulla base giuridica della responsabilità degli Stati membri; ma sin d’ora merita rilevare che a partire dal caso Francovich la Corte ha tenuto fermo il punto che la responsabilità extracontrattuale degli Stati membri nei confronti dei singoli per violazione del diritto comunitario “è inerente al sistema giuridico dei Trattati” (punto 32 della sentenza).  Un corollario di tale impostazione, sviluppato sin dalle prime sentenze in materia (Plaumann, causa 25/62; Luetticke, causa 4/69; Schoeppenstedt, causa 5/71), è che l’azione di annullamento sia azione primaria ed autonoma; nel senso di non essere condizionata da precise e concomitanti azioni di annullamento o di altro natura[6] 

1.3.  Il tema della tutela dei diritti era stato sinora sviluppato all’interno dell’ordinamento comunitario e del sistema complesso formato dal diritto CE e dalla CEDU; ma di recente ha avuto modo di espandersi verso il versante internazionale, specie per le sollecitazioni poste dalle nuove organizzazioni internazionali di ultima generazione (come l’Organizzazione mondiale del commercio), più simili al modello di organizzazione sovranazionale che non a quello delle tradizionali “unioni internazionali amministrative”. Nonchè per le incisive misure per combattere il terrorismo internazionale, come le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (NU), assunte ai sensi degli artt. 24 e 25 della Carta delle NU del 1945.La giurisprudenza comunitaria ha avuto inizialmente alcune incertezze di impostazione, ben evidenziate dalle sentenze del Tribunale di primo grado 21.9.2005, cause T-315/01 e T-306/01, Yusuf, ove si è accolta un’interpretazione di tipo internazionalistico per cui gli Stati membri delle NU sono tenuti a rispettare prima di tutto gli obblighi loro derivanti dalla Carta delle NU; anche rispetto a qualsiasi altro obbligo convenzionale da essi assunto. Addirittura, il Tribunale ne ha tratto l’obbligo per gli Stati membri di disapplicare qualsiasi norma di diritto comunitario che ostacoli la buona esecuzione degli obblighi assunti in base alla Carta NU; tramite un istituto che già di per sé è dubbio, quale la “disapplicazione internazionalistica.Opportunamente, la Corte di giustizia ha rimesso l’accento sul carattere prettamente europeo della tutela dei diritti; in particolare, affermando (punto 308 e segg. della citata sentenza Kadi) che la prevalenza del diritto NU sul diritto comunitario non si estende al diritto primario (Trattati) ed ai principi generali, nel cui novero vi sono i diritti fondamentali. Di conseguenza ha avuto “l’ardire” di filtrare le misure del Consiglio di sicurezza, come attuate dalle istituzioni comunitarie, in relazione alle garanzie dei diritti fondamentali. La sentenza di riferimento è la già citata, recente, del 3 settembre 2008; assunta in Grande sezione sul caso Kadi, secondo cui i principi che disciplinano il concatenarsi dei rapporti tra l’ordinamento giuridico internazionale creato dalle Nazioni Unite e l’ordinamento giuridico comunitario  non escludono un controllo giurisdizionale della “legittimità interna” di un regolamento comunitario sotto il profilo dei diritti fondamentali; anche per essere tale controllo una garanzia costituzionale che fa parte dei fondamenti stessi della Comunità (punto 290 della sentenza).

1.4.  Gli atti internazionali conclusi dalla Comunità, per le materie di sua competenza, rilevano anche nel quadro della problematica della responsabilità extracontrattuale. E’ stato infatti sostenuto[7] che gli Accordi OMC implicano una responsabilità extracontrattuale, in caso di violazione da parte delle istituzioni comunitarie di decisioni assunte su tale base, in quanto gli accordi OMC rientrano tra le normative alla luce delle quali il giudice comunitario controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie.La conclusione della Corte di giustizia (sentenza già citata del 9.9.2008[8]) è risultata negativa perché, in generale, l’esame della validità di una normativa comunitaria derivata alla luce di un trattato internazionale può avvenire “solo ove ciò non sia escluso né dalla natura né dalla struttura di esso e, inoltre, le sue disposizioni appaiano, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise”; nello specifico, perché gli Accordi OMC non rientrano tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie (punto 110 e segg. della sentenza). 

2.  Miti e realtà della tutela dei diritti nell’ordinamento comunitario. 

2.1. Dopo questa introduzione si potrebbe pensare alla CE ed all’UE come al paradiso dei diritti e delle garanzie, ove il tema della responsabilità è uno dei filoni ancillari e necessari del diritto di difesa e del diritto alla piena protezione dei propri interessi giuridicamente rilevanti. In realtà, possiamo constatare una forte differenza tra i principi affermati e la realtà del livello di protezione effettivamente garantitoSi consideri che le procedure di tutela offerte agli interessati dal diritto comunitario sono, a prima lettura, molteplici: azione di annullamento (art. 230, comma 4, TCE), eccezione di invalidità (art. 241 TCE), rinvio pregiudiziale sulla validità degli atti compiuti dalle istituzione e dalla BCE (art. 234, comma 1, TCE), ricorso in carenza (art. 232 TCE), azione di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, della Comunità (art. 288 TCE). Ma, salvo l’azione di annullamento, le altre azioni sono assai raramente usate vuoi per l’applicazione da parte dei giudici comunitari di criteri di ammissibilità assai rigidi; vuoi per la sfiducia sul loro esito positivo. Non ingiustificata, considerando che le conclusioni raggiunte dai giudici comunitari sono normalmente di rigetto delle richieste degli attori privati; anche  quando le sentenze si dilungano in premessa sul ruolo qualificante dei diritti fondamentali.La stessa azione di annullamento non si è manifestata come la migliore procedura per gli interessati, a causa di una giurisprudenza restrittiva della Corte di giustizia; più che per la formulazione del richiamato art. 230 TCE. Basti qua ricordare che sin dalle prime decisioni la Corte ha dato una lettura limitativa della legittimazione processuale, in relazione ai requisiti dell’azione come l’individualità dell’interesse (Plaumann, 15.7.1963, causa 25/62, che ha posto un criterio sostanzialmente seguito sino ad oggi: sentenza 25.7.2002, C-50/00, Union de Pequenos Agricultores; sentenza 1.4.2004, C-263/02, Jego-Quere) ed al carattere diretto della violazione (causa C-104/00). Di più, la Corte ha previsto pretoriamente altri criteri, come l’interesse ad agire, con scelta di merito condivisibile, ma senza espressa base giuridica (per una sintesi recente sui requisiti della legittimazione, cfr. la sentenza 13.3.2008, C-125/06, Infront AG). Per gli attori “non privilegiati” (si chiamano così gli attori diversi dalle istituzioni comunitarie e dagli Stati membri) si può dire – parafrasando l’espressione usata nel secolo scorso da un giudice inglese circa la legittimazione ad adire l’High Court inglese – che le porte della Corte di giustizia sono aperte come quelle dell’Hotel Ritz per la persona comune[9]

2.2.      Ma, e qui si arriva finalmente al nostro tema, lo stesso atteggiamento limitativo non è stato seguito dalla Corte in relazione all’azione di danno; specie per il lato della responsabilità extracontrattuale. Infatti, la giurisprudenza comunitaria ha sviluppato un interessante complesso di principi; in parte ricavati dai diritti nazionali, per altre parte sua propria creazione. Soprattutto, ha letteralmente “inventato” – quale problema comunitario – il tema della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto comunitario; senza base diretta nel TCE, se si esclude il riferimento – di limitato rilievo – nell’art. 228 alla eventuale sanzionabilità degli Stati membri che non si siano pienamente conformati alle sentenze della Corte pronunciate nei loro confrontiL’attivismo della Corte sulla tematica della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri è oggetto di vivaci critiche, come meglio si dirà. Merita chiedersi sin d’ora la ragione di questa apparentemente strana differenza di considerazione dell’azione di responsabilità rispetto a tutti gli altri rimedi. Anticipando la meglio ragionata conclusione, pare corretto affermare che la Corte abbia voluto in un colpo solo perseguire una serie di obbiettivi di rilevante interesse: a) allontanare da sé e in genere dalla Comunità l’azione di responsabilità, valorizzando il rapporto diretto dei singoli con gli Stati membri e le loro corti/tribunali; b) strumentalizzare i singoli quali indiretti guardiani della correttezza comunitaria delle proprie amministrazioni nazionali; c) condizionare i giudici nazionali, ad onta dell’affermato principio dell’autonomia procedurale degli Stati membriCerto, i ragionamenti della Corte – per quanto impregnati di considerazioni di politica del diritto, qua finalizzate a valorizzare la tutela in sede nazionale per arginare azioni dirette davanti ai giudici comunitari – sono sempre eleganti e basati su considerazioni di per sé ineccepibili. Nel caso, essendo prevalente l’attività/inattività degli Stati, sia nel tradizionale (ma ormai raro) modello dell’amministrazione indiretta, sia in quello (oggi predominate della coamministrazione e dei procedimenti composti), è corretto ritenere che formalmente la contestazione riguarda il comportamento degli Stati. Malgrado che le amministrazioni statali siano, in queste circostanze, “amministrazioni comuni” dell’ordinamento comunitario; se non addirittura, come affermato dalla Cassazione in una recente sentenza (SS.UU., 19.5.2008, n. 12641), “longa manus della Comunità”. Così come è certamente corretta l’affermazione che l’azione di responsabilità è anzitutto finalizzata alla piena garanzia delle posizioni degli interessati; e che gli effetti “funzionali” agli interessi comunitari – apprezzatissimi dalle istituzioni comunitarie – sono solo collaterali alla ratio primaria dell’azioneSono rimaste isolate talune conclusioni della Corte (come nella sentenza Krohn, causa 175/84) sull’esistenza di una responsabilità della Commissione per i danni subiti dai singoli per cattiva attuazione del diritto comunitario da parte delle amministrazioni nazionali, in base al criterio che la Commissione ha l’obbligo di vigilare attentamente sul rispetto del diritto comunitario, incluso la corretta applicazione in sede nazionale. Ma si tratta di un’indicazione da rirendere, anche per meglio finalizzare l’operato della Commissione.

2.3.  È estraneo a questo saggio il tema della possibile responsabilità non contrattuale dei singoli (probabilmente persone giuridiche, nella maggior parte dei casi, come nel quadro del diritto della concorrenza) per violazione di diritti che il diritto comunitario ha assicurato ad altre parti. La questione è di grande portata considerando l’incremento delle controversie di carattere “orizzontale” (privato-privato) a base comunitaria, e merita adeguata considerazione in una prossima occasione; anche per sviluppare le caute aperture sinora espresse dalla Corte di giustizia che, in principio, afferma che il diritto comunitario non preclude ai giudici nazionali di accertare tale forma di responsabilità, ma indica onerose condizioni di difficile verifica[10]. Per il momento basti dire che il tema ha caratteristiche simili a quelle più risalenti e sviluppate – come l’effetto diretto - ove le aperture della giurisprudenza comunitaria erano ispirate alla garanzia dell’effettività del diritto comunitario, più che dei diritti dei singoli; per poi assettarsi (con conferma nel diritto comunitario primario e derivato) principalmente sulle posizioni di questi ultimi. 

3.  La responsabilità extracontrattuale della Comunità e taluni suoi caratteri originali

La base giuridica della responsabilità comunitaria è, come anticipato, l’art. 288 TCE, che tratta della responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale. Riferimenti al tema si ritrovano anche negli artt. 233 e 235. Non esiste invece alcuna disposizione espressa nei Trattati sulla responsabilità extracontrattuale degli Stati membri; significativamente neanche nel nuovo Trattato di Lisbona, che lascia invariato l’attuale art. 288 TCE (che diviene l’art. 340 TFUE), e nella Carta dei diritti fondamentali che, nella disposizione sul diritto ad una buona amministrazione, ribadisce il diritto al risarcimento del danno ingiusto solo nei confronti della Comunità. La ragione è presumibilmente che le risultanze della giurisprudenza della Corte di giustizia sono ormai considerate parte dell’ acquis comunitario; così da non necessitare di una “consolidazione” nel diritto primario dell’Unione.La responsabilità extracontrattuale della Comunità era stata, sino a tempi recenti, oggetto di un limitato contenzioso, senza esiti particolarmente significativi. Si ricorda solo, oltre a qualche peculiarità procedurale prevista dallo Statuto della Corte, l’apertura (non ancora consolidata) al riconoscimento della responsabilità per fatto lecito (sentenza TPG 14.12.2004, T-69/00, Fiamm). Da ultimo, invece, vi sono indicazioni di una svolta giurisprudenziale verso un controllo penetrante sull’operato della Commissione (esecuzione “diretta”), che in alcuni casi – come la concorrenza – è particolarmente rilevante per i soggetti interessati. Emblematica la sentenza del TPG dell’11.7.2007, T-351/03, Schneider, ove è stata accertata la responsabilità della Commissione per la (grave) violazione del diritto comunitario sulla concentrazione di società, specie per la violazione dei diritti di difesa della Società interessata. La sentenza è interessante per il “coraggio” nell’incidere su una funzione essenziale della Commissione in tema di concorrenza (altrettanto non può dirsi per la situazione delle nostre Autorità amministrative), ed anche nella parte in cui ribadisce in modo articolato l’irrilevanza, almeno in modo diretto, dell’elemento psicologico della colpa. Le conclusioni dell’Avvocato generale nel giudizio di appello paiono però virare nuovamente verso la tradizione; sì che prima di trarre definitive valutazioni dal caso Schneider è opportuno attendere la sentenza della Corte di giustizia.In ogni caso, la giurisprudenza sul tema andrà sempre seguita con attenzione, dato che i principi affermati per la responsabilità della Comunità rifluiscono direttamente anche nel tema, assai più vasto, della responsabilità degli Stati membri. Il punto è stato chiaramente affermato dalla sentenza Brasserie du Pécheur (5.3.1996, cit.) nei para. 29 e 42.

3.2.  Indicazioni più consolidate scaturenti dalla giurisprudenza comunitaria riguardano due tematiche dove la posizione degli Stati membri appare assai conservativa: le questioni della possibile responsabilità extracontrattuale da atto legittimo/lecito e da atto legislativo.La prima questione è, come noto, dibattuta nel quadro degli ordinamenti nazionali; con esiti prevalentemente negativi, sia in termini di principio che, soprattutto, di risultanze concrete. Pertanto non può seriamente parlarsi, al riguardo, di un principio generale comune agli Stati membri. Anche la Corte di giustizia è stata assai riluttante – come accennato – ad aprire la via per una siffatta responsabilità, e, semmai, con particolari limitazioni rispetto alle usuali condizioni: come il “danno speciale e rilevante” arrecato all’interessato[11]. Con la nota sentenza Dorsch[12] il Tribunale ha poi arricchito la motivazione, affermando che la proponibilità dell’azione di responsabilità da atto legittimo può configurarsi solo quando il danno asserito riguarda un particolare gruppo di persone, trattato in modo sproporzionatamente diverso rispetto agli altri interessati; con una combinazione del principio di proporzionalità e della nozione di “danno inusuale”.Il problema è stato sistemato in modo più organico dalla Grande sezione della Corte di giustizia, con l’importante sentenza 9.9.2008, cause riuniti C-120/06 e 121/06 (ove si tratta anche della responsabilità extracontrattuale della Comunità in caso di asserita violazione di decisioni dell’organo di risoluzione delle controversie dell’OMC; questione che si analizzerà più avanti in questo testo).Il ricorso incidentale del Consiglio e della Commissione avverso la sentenza del Tribunale del 14.12.2005, causa T-69/00, ha riguardato la parte che ha affermato il principio generale della responsabilità della Comunità anche in mancanza di un comportamento illegittimo imputabile alle sue istituzioni.La Corte di giustizia ha accolto il ricorso incidentale delle istituzioni con un’articolata motivazione, la cui premessa è che la propria precedente giurisprudenza non ha per niente consacrato il principio di un regime di responsabilità extracontrattuale in mancanza di un comportamento illegittimo/illecito. E’ stato poi constatato, correttamente, che dall’esame comparativo degli ordinamenti degli Stati membri non emerge alcuna convergenza in tal senso. Anche ammettendo che in diritto comunitario il principio della responsabilità per atto legittimo sia astrattamente ammissibile, per la Corte occorre sempre verificare “almeno che siano riunite tre condizioni cumulative costituite dall’effettività del danno, dall’esistenza di un nesso di causalità tra esso e l’atto in questione, nonché dal carattere anormale e speciale del danno”.Nel caso in esame (FIAMM e Fedon, cit.), neanche poteva porsi il problema dato che la norma giuridica la cui violazione andava constatata (accordi OMC) non era preordinata a conferire diritti ai singoli. La sentenza precisa poi che la questione della responsabilità per atto legittimo/lecito non cambia neanche quando rilevano diritti fondamentali (punto 181 e segg.). Questi infatti non costituiscono “prerogative assolute”, ma “vanno considerati alla luce della loro funzione sociale”; sì che la loro violazione può essere fonte di responsabilità solo quando si tratti di interventi sproporzionati ed inaccettabili, “tali da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti”.  Occorre prendere atto della conclusione generale della Corte (punto 179 della sentenza), che non esiste un regime di responsabilità extracontrattuale della Comunità derivante dall’esercizio legittimo di attività rientranti nella sfera normativa; sì che eventuali responsabilità potranno configurarsi solo in speciali circostanze. Ma non si può non dissentire dalla motivazione, ove si confondono le questioni sulla responsabilità per atto legittimo/lecito con le questioni della responsabilità derivante dall’attività legislativa per violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli.Ai fini dell’interazione tra il regime comunitario ed il regime nazionale si può comunque sottolineare che, pur nei limiti ora detti, il diritto comunitario ammette forme di responsabilità da atto legittimo/lecito; con aperture maggiori, almeno in punto di principio, rispetto al diritto nazionale.

3.3.  Circa poi la questione della responsabilità derivante da attività legislativa, si può constatare una non rara asimmetria di giudizio della Corte di giustizia  che è severa nei confronti degli Stati membri, ma assai più indulgente per il legislatore comunitario. Rinviando ai paragrafi successivi l’esame della prima questione, per quanto riguarda la responsabilità della Comunità si è affermato che essa può configurarsi solo in caso di violazione grave di una norma superiore (sentenze Grands Moulins, cause riunite 9/71 e 11/71; Bayerische HNL, cause riunite C-46/93 e 48/93; AERPO, causa C-119/88).Quasi didatticamente la Corte ha spiegato che “la concezione restrittiva della responsabilità della Comunità derivante dall’esercizio delle proprie attività normative si spiega con la considerazione che l’esercizio del potere legislativo, anche nei casi in cui esiste un controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti, non deve essere ostacolato dalla prospettiva di azioni risarcitorie ogni volta che esso deve adottare, nell’interesse generale della Comunità, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli e che, per altro verso, in un contesto normativo caratterizzato dall’esistenza di un ampio potere discrezionale, indispensabile per l’attuazione di una politica comunitaria, la responsabilità della Comunità può sussistere solo se l’istituizone di cui trattasi ha disconosciuto, in modo palese e grave, i limiti che si impongono all’esercizio dei suoi poteri” (sentenze Brasserie du pècheur e Factortame, cit., punto 45; FIAMM e Fedon, cit., punto 174). Si tratta di considerazioni condivisibili, ma che non corrispondono a quanto deciso più restrittivamente dalla Corte nei casi di responsabilità degli Stati membri.     

4.  La responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Base giuridica ed altre questioni generali 

4.1.  In ordine alla responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario, i temi principali sono i seguenti: a) la base giuridica di tale responsabilità; b) l’ambito del diritto comunitario che può essere parametro della legalità/illegalità del comportamento degli Stati; c) la nozione di Stato che qua è richiamata; d) le condizioni dell’azione di responsabilità; e) il ruolo dell’elemento soggettivo per la configurabilità della responsabilità; f) i condizionamenti per l’ordinamento degli Stati membri.Prima di esaminare questi punti è opportuno notare che, fino alla storica sentenza Francovich del 1991, le sentenze del giudice comunitario erano state assai rare e poco significative. La ragione di quella situazione è discussa, ma la più convincente è che per garantire i diritti degli interessati inizialmente sia stato sufficiente l’utilizzo effettivo del criterio di interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto comunitario, e il pieno utilizzo del principio di effetto diretto. L’attivismo giurisprudenziale del successivo periodo è invece la risposta della Corte all’eccesso di violazioni del diritto comunitario – inevitabile, si potrebbe dire, per l’espansione di quest’ultimo. Da ultimo, per il riequilibrarsi della situazione e per un migliore rapporto tra giudici nazionali e giudici comunitari, la Corte di giustizia interviene più selettivamente  

4.2.  Il primo dei temi generali è la base giuridica del principio della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri. Non essendovi nei Trattati - come ormai più volte detto – alcun riferimento al tema (con la sola esclusione della previsione “trasversale” dell’art. 228 TCE), la Corte ha affermato (nella sentenza Francovich, 19.11.1991, cause riunite C-6 e C-9/90) che il principio di responsabilità è “inerente” al sistema comunitario, e che, in ogni caso, si può richiamare l’impegno alla leale collaborazione degli Stati membri con le istituzioni comunitarie nell’esecuzione dei loro obblighi e per la facilitazione della Comunità nell’adempimento dei propri compiti, previsto dall’art. 10 TCE. Su tale base, la Corte si è considerata tenuta ad assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato, conformemente all’art. 220 TCEIl criterio dell’“inerenza” non è in genere convincente in una discussione giuridica, poiché troppo vago. Tanto più questo carattere vale a fronte di un istituto, quale la responsabilità, che può comportare effetti assai negativi per il soggetto che ha visto contestato il suo comportamento. Anche il richiamo al principio di leale collaborazione non appare decisivo, dato che l’art. 10 TCE non può considerarsi principio grimaldello, applicabile in tutte le circostanze; specie a fronte di un sistema che ancora è basato su criteri di attribuzione e su principi generali quali il principio di legalità e di certezza del dirittoTuttavia, pur essendo certo preferibile una diretta e chiara base legale per il principio di responsabilità, non sembra che nel caso in esame il criterio dell’“inerenza” sia richiamato a sproposito. Infatti, la giurisprudenza della Corte appare una necessaria conseguenza dei principi di supremazia del diritto comunitario rispetto ai diritti nazionali e del principio di effetto diretto del diritto comunitario, in determinate condizioni. La relazione tra questi principi è stata proposta inizialmente dalla dottrina, e si ritrova poi anche nelle conclusioni di Avvocati generali e nelle motivazioni di sentenze che hanno fatto proprie tali posizioni.Emblematiche le conclusioni dell’Avvocato generale Léger nella causa Lomas (C-5/94), su cui torneremo in seguito perché di particolare interesse per la responsabilità dell’amministrazione. Per Léger un’azione di danno contro lo Stato per violazione del diritto comunitario costituisce uno sviluppo indispensabile al principio posto dalla sentenza Simmenthal sulla non applicazione del diritto nazionale contrario al diritto comunitario. In tale caso, può non essere sufficiente la disapplicazione della norma nazionale, e gli interessati devono aver riconosciuto il diritto ad agire per il risarcimento dei danni loro causati dall’applicazione della normativa interna che, in osservanza del sistema europeo, avrebbe dovuto rimanere lettera morta.La Corte ha fatto propria tale posizione nel modo più netto con la sentenza Brasserie du Pécheur e Factortame, per cui il diritto al risarcimento è “il necessario corollario” del diretto effetto della previsione comunitaria dalla violazione della quale è dipeso il danno. Altrimenti, sarebbe vanificata la piena effettività del diritto comunitario.Occorre poi aggiungere che nel sistema giuridico integrato CE/UE-Stati membri appare  inammissibile che la responsabilità per violazione del diritto comunitario valga solo per le istituzioni e gli organismi comunitari; specie quando le attività a rilevanza comunitaria sono svolte sempre più spesso secondo il criterio dei procedimenti composti.La ragione maggiore per il riconoscimento comunitario della responsabilità extracontrattuale sta comunque nel rilievo dei singoli come soggetti dell’ordinamento comunitario, secondo quanto affermato dalla Corte sin dalla sentenza Van Gend & Loos del 5.2.1963, causa 26/62. I singoli di cui parla la Corte non possono non avere diritti nei rispetti della Comunità e degli Stati membri, a fronte dei rispettivi comportamenti; diritti che sono “giustiziabili” secondo il principio dell’effetto diretto, altra creazione della giurisprudenza comunitaria.Per concludere, il criterio della configurabilità del principio di responsabilità per “inerenza” non è, per una volta, contestabile. Non per caso, oggi, il principio di responsabilità degli Stati membri è così affermato da non essere stato considerato – come detto – degno di un’espressa menzione nell’ultimo Trattato; laddove gli Stati membri avrebbero ben potuto modificare l’attuale sistemazione giurisprudenziale.

4.3.  Circa poi l’ambito del “diritto comunitario”, quale parametro dell’antigiuridicità dei comportamenti contestati, la risposta è stata data da tempo dalla Corte di giustizia a favore dell’interpretazione più lata. Pertanto, vi si ricomprendono il diritto primario e il diritto derivato, ogni altro tipo di norma, i principi generali, nonché le statuizioni giurisprudenziale della Corte di giustizia. Ma sempre alla condizione che tale “diritto” sia finalizzato (anche solo indirettamente) alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive degli interessati.Con il moltiplicarsi di accordi internazionali conclusi dalla Comunità europea per le materie di sua competenza, si sono avuti casi in cui gli interessati hanno attivato azioni di responsabilità nei confronti della Comunità per comportamenti illeciti per contrasto con atti e decisioni scaturenti da tali accordi. Il parametro normativo che basa l’azione di responsabilità è dunque direttamente un atto “esterno” al diritto comunitario.Un caso esemplare è quello da ultimo deciso in secondo grado dalla Grande sezione della Corte di giustizia con la già citata sentenza del 9.9.2008, cause riunite C-120 e 121/06 (FIAMM e Fedon). Le due imprese avevano impugnato la sentenza del Tribunale che aveva respinto i loro ricorsi diretti ad ottenere il risarcimenti del danno asseritamene causato da una sovrattassa doganale applicata dagli Stati Uniti sull’importazione dei loro prodotti, autorizzata da un organo dell’OMC, a seguito dell’accertamento da parte dell’Organo per la risoluzione delle controversie dell’OMC dell’incompatibilità del regime comunitario di importazione delle banane. Il punto di diritto verteva dunque sull’asserito comportamento illecito delle istituzioni comunitarie per mancato adeguamento alle decisioni scaturenti dagli accordi OMC.La Corte ha confermato la sentenza del Tribunale, dato che è possibile procedere all’esame della validità di una normativa comunitaria derivata alla luce di un trattato internazionale “solo ove ciò non sia escluso né dalla natura né dalla struttura di esso e, inoltre, le sue disposizioni appaiano, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e suffcientemente precise” (punto 110). Tali non sono gli accordi OMC, salve eccezionali circostanze. In particolare, circa gli impegni della Comunità di conformarsi alle norme dell’OMC, la Corte ha ritenuto che nulla giustifica la possibilità di invocare norme dell’OMC davanti al giudice comunitario e di permettere a quest’ultimo di controllare alla luce di queste la legittimità di regolamenti comunitari. Oltre al rilievo generale, la Corte ha ritenuto decisivo che la soluzione delle controversie sia aperta a soluzioni diverse; sì che anche da questo punto di vista le decisioni OMC non sono idonee ad attribuire ai singoli un diritto di farle valere dinanzi al giudice comunitario per ottenere un controllo sulla liceità dei comportamenti delle istituzioni comunitarie.

4.4. Relativamente alla nozione di “Stato”, la Corte è ferma nel riferirsi ai Governi anche quando sia fuori discussione che i fatti illeciti siano addebitabili ad altri enti pubblici, come i Laender (caso austriaco del Land Tirol, Konle, 1.6.1999, C-302/97) oppure enti previdenziali (caso Haim, 7.4.2000, C-424/97). Si avverte qua la perdurante ambiguità internazionalistica di certe questioni comunitarie (riflessa anche dal mancato riconoscimento delle regioni quali “attori privilegiati” nell’azione di annullamento, e quindi dall’equiparazione della loro posizione a quella dei privati; con tutti i conseguenti limiti sopra detti), visto che in varie occasioni gli stessi Avvocati generali tendono a liquidare il problema richiamando il principio dell’unità dello Stato in diritto internazionale; quando invece si tratta di questione non di diritto internazionale, bensì prettamente comunitaria. La posizione esprime poi l’irrilevanza per la Comunità dell’elemento soggettivo dell’illecito, cui si premette il dato oggettivo della violazione grave e manifesta.Ferma tuttora la posizione dello “Stato” come sopra inteso, si avverte un crescente imbarazzo della Corte a fronte di un sempre maggiore rilievo delle amministrazioni regionali e locali. Il fenomeno dell’autonomismo istituzionale non è, come noto, solo italiano; ma accomuna tutta l’Europa. Nella prospettiva della responsabilità una recente sentenza della Corte di giustizia (11.9.2008, cause riunite da C-428 a 434/06, Union general de Trabajodores de la Rioja), trattando di aiuti di Stato, si è impegolata in una complessa definizione di come debba intendersi l’”ente infrastatuale sufficientemente autonomo”, che mostra la progressiva insostenibilità di un’esclusiva relazione Comunità-Stati membri a fronte di un modello pressoché generale in tutta Europa di forti autonomie regionali e locali. La questione ha un’ovvia ripercussione sulla questione in esame.

4.5.  È naturale a questo punto passare alle condizioni dell’azione di responsabilità. Al riguardo, a prima lettura sembra esservi una sostanziale identità con le condizioni proprie del diritto italiano; comuni anche a molti altri Stati membri. Infatti, tali condizioni sono state individuate nell’antigiuridicità del comportamento dannoso; l’esistenza di un pregiudizio effettivo e giuridicamente rilevante; il nesso causale tra il comportamento tenuto dal soggetto comunitario e il pregiudizio lamentato (tra le tante sentenze della Corte, Oleifici Mediterranei, 29.9.1982, causa 26/81; KYDEP, 15.9.1984, causa C-146/91). Sono comunque proprie del diritto comunitario le seguenti due precisazioni: la norma violata deve essere la base diretta di diritti dei singoli; la violazione di detta norma deve essere “seria”, nel senso che l’autorità ha travalicato i limiti della sua discrezionalità in modo grave e manifesto. Una rilevante differenza sta, come meglio dopo si dirà, nell’obbiettivizzazione della responsabilità; in diretta conseguenza dei caratteri del sistema europeo. Merita anche rilevare, sul piano procedurale, che il giudice comunitario è particolarmente rigoroso nel richiedere all’attore una piena dimostrazione della sussistenza delle condizioni suddette.Relativamente alla rilevanza dell’elemento psicologico della colpa (il dolo qua non interessa), è ben noto che nel nostro diritto la colpa rappresenta una componente essenziale della fattispecie di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. Il principio è stato ribadito dalle SS.UU. della Cassazione anche in occasione della storica svolta rappresentata dalla sentenza n. 500/1999. Al contrario, nel diritto comunitario ciò che rileva – sostanzialmente in modo assorbente – è il dato obbiettivo dell’illegittimità dell’azione pubblica.La diversa considerazione dell’elemento della colpa manifesta i limiti della tesi che la Corte di giustizia si sia rifatta ai principi comuni agli Stati membri per costruire il sistema comunitario di responsabilità. Infatti, l’elemento della colpa è presente costantemente – oltre che nel nostro ordinamento – anche negli ordinamenti degli Stati membri; pur, ovviamente, con varianti significative quali la “misfeasance” inglese. La Corte ha voluto espressamente prendere le distanze da tali condizionamenti nel più volte citato caso Factortame del 1996, dando rilievo prevalente al criterio dell’effettività della tutela; che l’elemento soggettivo dell’illecito potrebbe mettere a rischio per le gravose conseguenze processuali per il danneggiato. 

5.  Segue: il carattere comunitario della responsabilità degli Stati membri e le peculiari conseguenzePrima di esaminare quanto il richiamato quadro generale influisca sul diritto nazionale, merita esaminare qualche ulteriore caratteristica del diritto comunitario in materia.

5.1.  La Corte è stata particolarmente attenta a precisare che la questione della responsabilità è questione di diritto comunitario, sì che il diritto al risarcimento è basato direttamente nel diritto comunitario. Il diritto nazionale offre la propria disciplina per rendere concreta tale tutela, ma non condiziona la configurabilità dell’illecito. Il punto inizialmente era rimasto ambiguo nella sentenza Russo (22.1.1976, causa 60/75), ed è stato opportunamente chiarito nella già richiamata sentenza Francovich che risolve la questione “alla luce del sistema generale del Trattato e dei suoi principi fondamentali” (punto 145).Come è stato giustamente notato[15], la sentenza Francovich rappresenta il risultato finale e logico di una evoluzione giurisprudenziale che ha affermato e sviluppato i principi della specificità dell’ordine giuridico comunitario, del primato e dell’effetto diretto del diritto comunitari.In sostanza, l’azione di responsabilità è basata sul diritto comunitario, ma si svolge secondo le procedure nazionali sino a quando non siano eventualmente posti a rischio i due principi generali qua rilevanti: il principio di equivalenza e quello di effettività della tutela. Il primo principio implica che le norme nazionali applicabili ai casi interni non siano più favorevoli di quelle relative ai casi di rilevanza comunitaria; il secondo, che le norme nazionali non rendano eccessivamente difficile l’azione risarcitoria a base comunitaria.

5.2.  Una seconda caratteristica è che la responsabilità per fatto illecito della pubblica amministrazione è solo una parte di una comprensiva responsabilità dello Stato per tutte le funzioni pubbliche al suo interno esercitate, inclusa la funzione normativa e financo la funzione giurisdizionale. Il punto non è stato affrontato in termini generali dalla Corte, ma si ritrova esplicitamente nelle conclusioni degli Avvocati generali. Così, nelle conclusioni dell’Avvocato generale Léger nel caso Lomas (C-5/94), dove si sottolineò che, essendo problema comunitario la questione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, non rileva la ripartizione nazionale delle funzioni tra i vari poteri pubblici; aspetto per definizione lasciato alle competenze dello Stato membro. Il medesimo Avvocato generale, in altro caso[16], ha affermato – con poca coerenza con il carattere proprio della Comunità, ma efficacemente nell’esito – che sulla base dell’unità dello Stato nella prospettiva internazionalistica la violazione è attribuita allo Stato e non allo specifico organo che l’ha commessa.  La giurisprudenza della Corte ha trattato in una prima fase della responsabilità dello Stato inadempiente nell’attuazione normativa di direttive comunitarie prive di effetti diretti (e’ il caso guida Francovich, citato, del 1991). La circostanza differenzia sensibilmente il diritto comunitario dal diritto nazionale, ma – se si assume la prospettiva comunitaria – è del tutto spiegabile, dato che l’attuazione nazionale in via normativa del diritto comunitario rimane centrale nel quadro degli adempimenti comunitariLa Corte ha dunque esaminato il caso della cattiva attuazione normativa (è il caso Brasserie du Pecheur e Factortame III, 5.3.1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93), e successivamente il caso dell’azione di danno per le conseguenze dell’attività amministrativa in violazione del diritto comunitario (caso Lomas, sentenza 23.5.1996, C-5/94). Più recente, ed inaspettata solo per coloro che non avevano colto i peculiari caratteri della responsabilità in diritto europeo, è stata l’estensione dei medesimi principi anche all’attività giurisdizionale di competenza dei giudici di ultimo grado (sentenza Koebler, 30.9.2003, C-224/01; seguita dal caso, assai rilevante per il nostro ordinamento, Traghetti del Mediterraneo, 13.5.2006, C-173/03).Con la prima sentenza (Koebler), la Corte ha anzitutto precisato che il principio della responsabilità dello Stato ha valore di riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, “qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione”. Inoltre, ha affermato che il potere giudiziario nazionale ha un ruolo essenziale per la tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la cui piena efficacia sarebbe messa in discussione, ed affievolita la tutela dei diritti,  se fosse pregiudizialmente escluso che i singoli non possano ottenere risarcimento per violazioni imputabili ad organi giurisdizionali di ultimo grado di uno Stato membro.Su tale premesse, e ribadite in generale le condizioni dell’azione di responsabilità dello Stato, la Corte si è preoccupata “della specificità della funzione giurisdizionale, nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto”. Da qui la conclusione, che rende particolare la responsabilità per fatto del giudice, che la responsabilità può sussistere “nel caso eccezionale in cui il giudice ha violato in maniera manifesta il diritto vigente” (punto 53). Situazione che si determina, ad esempio, in caso di manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia da parte del giudice nazionale.Con queste puntualizzazioni, l’accertamento della responsabilità va effettuato secondo le norme nazionali; fermo restando che non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.L’autonomia processuale degli Stati membri (tanto più quella relativa al diritto sostanziale, ovviamente) trova comunque un ulteriore vulnus; come chiaramente risulta dal successivo caso Traghetti del Mediterraneo (sentenza 13.6.2006, causa C-173/03). Era in discussione, a seguito di procedura pregiudiziale attivata dal Tribunale di Genova, la questione se sia contraria al diritto comunitario una previsione legislativa nazionale che esclude in via generale la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che l’interpretazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Anche quando sia invocato il principio della cosa giudicata, in virtù del primato del diritto comunitario tale principio non può giustificare l’esclusione della responsabilità del giudice di ultima istanza.L’effetto principale della conclusione ivi raggiunta è stato infatti la messa in discussione del principio di cosa giudicata (art. 2909 c.c.), e, in generale, dei principi di stabilità giuridica. Non si tratta di una sentenza eccentrica, come dimostrato dall’importante sentenza, di poco precedente, Lucchini (18.7.2007, C-119/05). E’ vero che in ambedue i casi si trattava di circostanza del tutto particolari, ma è altrettanto vero che la Corte, una volta stabilito la cedevolezza dei principi di cosa giudicata e di provvedimento amministrativo definitivo, potrà rifarsi ai due precedenti per ampliare la portata della propria statuizione giurisprudenziale.L’estensione dei principi sulla responsabilità a tutte le funzioni dello Stato allontana sensibilmente il diritto comunitario dal diritto nazionale, non solo italiano. Infatti, di regola la responsabilità del legislatore è, in principio, non configurabile e la responsabilità del giudiziario è disciplinata in termini strettamente soggettivi, quale responsabilità del singolo magistrato; esemplare la legge italiana n. 117/1988. Da qui, la concreta possibilità di disapplicazione della disciplina nazionale che eventualmente limiti la responsabilità comunitaria. I pochi casi nazionali riportati dalle riviste sono contraddittori e non probanti. Al riguardo, la Corte di giustizia ha voluto precisare - nella sentenza Traghetti del Mediterraneo - che i criteri che gli Stati membri possono precisare non possono andare oltre la soglia comunitaria della manifesta violazione (punto 44 della sentenza).

5.3. La responsabilità extracontrattuale per comportamento illecito dell’amministrazione[17] si differenzia dagli altri due tipi (del legislatore  e del giudiziario) per non essere circondata da quelle particolari limitazioni che, giustamente, sono state definite per evitare un uso eccessivo delle relative azioni di responsabilità nei confronti del legislatore e del giudiziario. Così, è stato precisato (sentenza Traghetti del Mediterraneo, cit., punto 42 e segg.) che la violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado può verificarsi “nel caso eccezionale” di violazioni gravi e manifeste; di cui la Corte dà alcune esemplificazioni.  Per l’amministrazione, invece, è sufficiente la semplice trasgressione del diritto comunitario; quindi senza necessità di dimostrare la gravità particolare della violazione e senza rilievo per l’elemento della colpa.

5.4.  Altro carattere di rilievo dell’azione di responsabilità secondo il diritto comunitario è la sua autonomia nei rispetti dell’azione di annullamento degli atti dell’amministrazione che hanno causato il pregiudizio asserito; avendo tale azione propri presupposti e specifica funzione. Per usare una terminologia nazionale, il diritto comunitario non prevede in termini generali un criterio di pregiudizialità amministrativa, secondo cui l’azione risarcitoria è ammissibile solo quando il provvedimento lesivo sia stato impugnato.Nella prima giurisprudenza (es. il citato caso Plaumann del 1963, causa 25/63) il punto era rimasto sfumato; ma presto venne chiarito (a partire dalla sentenza Luetticke, 28.4.1971, causa 4/69) il carattere proprio dell’azione risarcitoria, che non è diretta all’annullamento di un provvedimento, bensì al risarcimento da attività o inattività illecita di un’istituzione o di un organismo comunitario.Per quanto in linea di principio distinte, le due azioni nonsono disconnesse in tutti i casi in cui un’azione risarcitoria avrebbe potuto ottenere un risultato analogo, anche pecuniario, tramite la tempestiva impugnativa del provvedimento causativo del pregiudizio. La questione si è posta in termini puntuali nel contenzioso del pubblico impiego comunitario, le cui risultanze sono state poi generalizzate dai giudici comunitari. Così, per la già citata sentenza Plaumann del 1963 (causa 25/63), tutt’oggi di riferimento malgrado taluni successivi affinamenti, “è irricevibile un’azione di risarcimento basata sull’illegittimità di un atto che non era stato tempestivamente oggetto di un’azione di annullamento, in quanto altrimenti si sarebbe potuto conseguire con diversa procedura un risultato che il sistema comunitario vincola a precisi termini e condizioni”. In tali casi, infatti, ammettere azioni di responsabilità potrebbe legittimare azioni “mascherate” con carattere sostanzialmente di annullamento di decisioni non tempestivamente impugnate.Il tema è di particolare rilevanza anche nel diritto nazionale, a seguito dell’innovativa posizione assunta dalla Cassazione - specialmente dal 2006[19] - sull’insussistenza nel nostro ordinamento del principio della pregiudizialità amministrativa. La conclusione della Cassazione è contrastata dalla giurisprudenza amministrativa[20] ed assai dibattuta dalla dottrina, ma è stata da ultimo confermata dalla sentenza delle Sezioni unite n. 30254 del 23 dicembre 2008. Ai presenti fini, questa sentenza è rimarchevole in quanto afferma come primario elemento di supporto alle conclusioni raggiunte il diritto comunitario sul tema, come già analogamente fu fatto dalla notissima sentenza delle Sezioni unite n. 500/1999, in ordine alla risarcibilità degli interessi legittimi. Tuttavia, mentre il riferimento al diritto comunitario fu in effetti decisivo per la svolta giurisprudenziale del 1999, diverso è per il tema della pregiudizialità. Come in effetti dà atto la sentenza n. 30254 (punto 12.4.2.), ma con poca coerenza motivazionale, la giurisprudenza comunitaria non ha ancora un assetto definitivo, salvo “un sicuro orientamento volto a negare il risarcimento almeno in un definitivo settore, in particolare quando la relazione controversa intercorre solo tra il ricorrente e la istituzione pubblica, e la domanda di danni tende allo stesso risultato che si sarebbe potuto conseguire con l’azione di annullamento”.Lungi dall’essere un conclusivo punto di riferimento per le contrastate tesi della Cassazione e del Consiglio di Stato, la giurisprudenza dei giudici comunitari è invece rilevante per il modo pragmatico con cui sta risolvendo il contenzioso di propria competenza. In particolare, non essendo vincolata da norme puntuali in materia (come in Italia l’art. 7 della legge TAR, novellato dalle recenti riforme), la Corte di giustizia non è interessata in linea generale ad andare oltre al principio dell’inammissibilità dell’azione di responsabilità per conseguire gli stessi risultati che avrebbero potuti essere raggiunti con un’azione diversa. E’ invece molto attenta alle circostanze di fatto del caso controverso[21], lasciando spazi significativi all’azione risarcitoria per i profili che non sarebbero comunque soddisfatti dall’azione di annullamento, o che ad essa rimangono collaterali e tuttora verificabili; od ancora per i casi in cui si possa dimostrare l’impossibilità di un’impugnazione in via diretta.Certo è che alla Corte di giustizia non appaiono significativi, ovviamente solo ai presenti fini, altri argomenti di origine comunitaria cui si richiama con forza la Cassazione; quale il principio di effettività a fronte del termine decadenziale per l’azione di annullamento. Risulta infatti fermissimo sin dalla prima giurisprudenza comunitaria che la previsione del termine di decadenza di sessanta giorni per l’azione di annullamento avverso gli atti delle istituzioni non attenti per niente all’effettività della tutela[22], neanche ad una visione combinata delle azioni costitutive e delle azioni risarcitorie.Al di là delle risultanze giurisprudenziali, anche il diritto scritto - pur con tutta la cautela tipica della problematica processuale, ancora principalmente demandata agli Stati – indica la medesima preferenza per l’azione di annullamento nei casi in cui l’azione costitutiva ……… La più recente direttiva processuale – la n. 66/2008 …………. – prevede infatti che gli Stati membri possono stabilire, quando viene richiesto un risarcimento del danno a causa di una decisione presa illegittimamente, che sia previamente necessario l’azione di annullamento (art. 2, comma 6); ed ancor più chiaramente (art. 2, comma 7) che vi possano essere “casi in cui una decisione deve essere annullata prima della concessione di un risarcimento dei danni”.Il diritto comunitario ha dunque, sul punto, caratteri propri che non sono direttamente rapportabili alle problematiche interne: Se non per quanto attiene al rilievo delle circostanze della fattispecie, che portano a diffidare di soluzioni di principio e di applicazione generale; come invece pare ormai assumere la Cassazione con i citati giudizi in tema di giurisdizione.La conclusione della Corte conferma l’assunto iniziale che la liberalità mostrata dalla giurisprudenza per l’azione di responsabilità rappresenti un correttivo alla scarsa tutela assicurata ai singoli dalle altre procedure di garanzia, ed in particolare dall’azione di annullamento. Correttivo che è stato generosamente riconosciuto (anche a soggetti che non sarebbero legittimati all’azione di annullamento, ex art. 230, c. 4, TCE) perché non determina attentati alle prerogative delle istituzioni comunitarie ed al funzionamento stesso della Comunità. 

6.  Cenni sull’incidenza nella problematica nazionale 

Per concludere alcune riflessioni sulle principali influenze che il diritto comunitario della responsabilità ha determinato, e può determinare ancora per l’avvenire, nel diritto italiano. Ai presenti fini tre conseguenze paiono principalmente degne di nota.Anzitutto, è stata decisiva la spinta del diritto comunitario per la conclusione raggiunta dalla Cassazione con la sentenza n. 500/1999. Senza gli sviluppi del diritto comunitario che si sono sopra richiamati, saremmo ancora oggi a proporre vanamente un’evoluzione della tradizionale giurisprudenza nazionale sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi. Non è un caso, dunque, che la sentenza n. 500, nell’elencare le varie motivazioni che hanno indotto le Sezioni Unite al proprio revirement, abbia messo al primo posto proprio il diritto comunitario (cfr. para. 6.1. e segg. della motivazione).       In secondo luogo, il diritto comunitario della materia è certamente alla base di alcune recenti riforme della normativa sostanziale e processuale, quali l’integrazione alla legge sul procedimento amministrativo (n. 15/2005), nella parte riferita all’esplicita valenza nazionale dei principi generali di diritto comunitario; il codice dei contratti pubblici (nella parte in cui  ……..); e la legge n. 205/2000 nella parte in cui (art. 7) prevede che i soggetti che abbiano subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o forniture o delle relative norme interne di recepimento, possono chiedere all’amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. Al proposito molto è ancora da fare, visto che la recente seconda “direttiva ricorsi” (66/2007, citata, dell’11.12.2007) comporta ulteriori significative innovazioni.Infine, il diritto comunitario impone una revisione dell’impostazione generale dell’istituto della responsabilità extracontrattuale. Nella misura in cui, giorno dopo giorno, si amplia l’ambito di applicazione del diritto comunitario, si dovrà tener conto principalmente dall’impostazione oggettiva che è privilegiata dal diritto comunitario. In esso, ciò che rileva è, da un lato, che la norma che si pretende violata sia chiaramente rivolta ad assicurare diritti ai singoli; dall’altro, che la violazione di tale norma abbia oggettivamente determinati caratteri, senza riguardo alla condizione soggettiva dello specifico autore della violazione. Questa diversa costruzione della responsabilità – che talora si usa definire in termini di “colpa di apparato “ – di cui si avvertono i presupposti vale certamente solo per le questioni a rilevanza comunitaria, fermo il resto che non sia stato “comunitarizzato”. Ma è innegabile che, già in tal modo, si determina un vulnus alla concezione tradizionale che si pensava a valenza assolutamente generale. Inoltre, è noto che i nuovi principi di diritto comunitario hanno una potente capacità espansiva anche là dove non dovrebbero rilevare direttamente.Lo “scudo” per gli autori dei comportamenti contestati, posto dalla normativa nazionale che conferma il rilievo dell’elemento psicologico, può rimanere applicabile solo per quanto attiene la sfera “interna” (i.e. nazionale) della responsabilità; non certo per condizionare l’azione di responsabilità nei confronti dello “Stato”, come sopra inteso.

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[1]  Per tale disposizione e per il nuovo art. 46° del TUE, l’UE avrà un’unica personalità giuridica. Scomparirà nei due nuovi trattati ogni riferimento alla CE.
[2]  L’ordinamento giuridico comunitario, 3° ed., Bruxelles-Luxembourg, 1989, 43 segg.
[3]  Ho sviluppato questi temi in alcuni saggi, tra cui: Dalla “Comunità di diritto” alla Unione dei diritti, in  S. Micossi-G.L. Tosato (a cura di), Il  Mulino, Bologna,  2008, 259 segg.; La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere funzionale?, in Riv. Trim Dir. Pubbl., 2002, 1 segg ..
[4]  Come è stato giustamente notato da A. Arnull (The European Union and its Court of Justice, OUP, Oxford, 2006,  275), che riprende un passo delle conclusioni dell’Avvocato generale Leger nel caso Lomas,  la responsabilità degli Stati membri non sorge solo nei confai dei singoli, persone fisiche o giuridiche, ma anche potenzialmente nei confronti degli altri Stati e della Comunità stessa. Questi aspetti non hanno per il momento avuto sviluppo; ma lo meritano senz’altro.
[5]  Causa 26/62.
[6]  Il punto è di particolare rilievo per la questione della pregiudizialità amministrativa, che sarà esaminata più avanti.
[7]  Dalle Società FIAMM e Fedon nella cause T-69/00 e T-135/01; e, in secondo grado, nelle cause 120 e 121/06.
[8]  L’impugnata sentenza del Tribunale era  del 14.12.2005, cause T-69/00 e T-135/01.
[9]  Cfr. le caustiche osservazioni di J.A.G. Griffith, Giudici e politica in Europa, ed it. A cura di M.P. Chiti, Feltrinelli, Milano, 1980, 29 segg.
[10]  Il caso più rilevante è sinora Courage, C-453/99.
[11] Caso Grands Moulins de Paris, cause riunite 9 e 11/71 ; Biovilac, causa 59/83 ; Clemessy, causa 267/82.
[12]  Causa T-184/95.
[13] Una sintesi  della problematica in H.J. Bronkhorst, The valid legislative act as a cause for liability of the Communities, in T. Heukels-A.McDonnell, The action for damages in Community Law, Kluwer, The Hague, 1997, 153; C. Stefanou-H. Xanthaki, A legal and political Interpretation of art. 215, new art. 288, of the Treaty of Rome, cit. , 85 segg.
[14]  Cfr. punti 20 e 22 della sentenza.
[15] J. Schockweiler, La responsabilité de l’autorité nationale en cas de violation du droit communautaire, in Rev. trim. dr. eur., 1992, 27, 46 .
[16]  Koebler,  C-224/01.
[17] La sentenza Lomas, oltre a non essere inaspettata per i motivi detti, era stata anticipata da considerazioni espresse in  risalenti sentenze – come la Humblet , causa 6/60 – peraltro lasciate senza sviluppi organici.
[18] Per una completa analisi dei profili di diritto comunitario e di diritto comparato, cfr. F. Cortese, La questione della pregiudizialità amministrativa, Padova, Cedam, 2007; spec.  66 e segg..
[19] Con le ordinanze delle Sezioni unite nn. 13659 e 13660 di quell’anno; poi ribadita dall’ordinanza n. 23471 del 2007.
[20] Basti considerare la decisione n. 12/2007 dell’Adunanza plenaria, seguita dalla giurisprudenza assolutamente prevalente dei giudici amministrativi. Ma già in precedenza, Ad. plen. n. 4/2003 e n. 9/2007.
[21] Spunti in questo senso anche in G. Falcon, La tutela giurisdizionale ….. (373)………..
[22] Cfr. A. Arnull, The European Union and its Court of Justice, cit., 53 segg.
[23]  Non è certamente sottoposto al vaglio delle particolari circostanze concreto del caso il punto di diritto affermato  dalle Sezioni unite nei recenti casi, come con la s sentenza n. 30254/2008: “ Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa,  è viziata da  violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”.